martedì 2 febbraio 2021

 

 

SULL'AFONIA DEGLI ATTORI CINEMATOGRAFICI

 



Siamo arrivati al punto che gli attori di cinema hanno una voce così flebile da non farci più capire cosa stanno dicendo.

La situazione è diventata paradossale, poiché nello stesso periodo che le tecniche di registrazione audio sono andate affinandosi, sta andandosi a perdere la possibilità di intendere distintamente le parole recitate dagli attori.

Non si tratta però di un fenomeno parapsicologico, ma di alcune scelte che i produttori cinematografici hanno fatto negli ultimi anni. Tra le più decisive per l’emergere di questo fastidioso paradosso, è quella di aver interrotto quella proficua e logica relazione che esisteva fra il teatro e il cinema.

Il cinema infatti si è sviluppato fin dalla sua nascita come una prosecuzione con altri mezzi dell’arte teatrale, ma ormai non è più così da tempo: è invece divenuto un tentativo di prosecuzione della vita reale con altri mezzi, che si fonda oltretutto sull’errato presupposto che basta filmare la vita così come si presenta, per avere un buon film.

Ma ogni genere d’arte, per definirsi tale, ha invece usato i propri strumenti e le proprie forme per produrre un arti-ficio che ricreasse un’essenza della vita, una copia finta di qualcosa che riveli l’autenticità della vita reale.

Per attuare questo maldestro piano di “post-neo-realismo” cinematografico, che ci ha costretti ad assistere perplessi ad una specie di afonia dei protagonisti dei film, i produttori non selezionano più gli attori dal teatro, com’era in passato, ma li prendono dalla vita quotidiana, e basta che siano “carini” visivamente - come un tempo gli eroi dei fotoromanzi - e li infilano nei set in mezzo ai tecnici, che sono tenuti a spremere fino all’osso quell’unica qualità estetica che possiedono e quell’unica cosa che sanno fare: essere se stessi.

Basta assistere a dei provini per accorgersi che la frase ampiamente più utilizzata dagli esaminatori è la seguente: “Non va bene, stai recitando troppo”.

Insomma si sta chiedendo ai potenziali attori e attrici di non recitare, ovvero di non dar prova di quello che sarebbe il loro mestiere, che sarebbe come chiedere ad un falegname di non saper segare il legno.

Questa ardua selezione, che chiede di rifare se stessi con l’aggiunta di un altro nome diverso dal proprio, era quello che per il teatro rappresentava “il lavoro dell’attore sul personaggio”, come diceva il titolo di una famosa opera di Stanislavskij, la quale non a caso era la bibbia di tutta una generazione di grandi attori cinematografici, dagli anni ’50 fino a pochi anni fa, che studiavano (sì: voce del verbo “studiare”) all’Actors Studio di New York.

In quella scuola, come in molte altre buone scuole di RE-CI-TA-ZIO-NE, oltre a spiegare che in un’opera d’arte non si fa "se stessi", ma si costruisce un personaggio del quale possiamo sapere molto, poco o nulla, e che può anche essere lontano anni luce da se stessi, si insegnava ad usare la propria voce, proprio come fosse lo strumento di un musicista, e con la coscienza che fosse legata a tutto l’insieme del corpo.

Ed ecco allora che, grazie a quell’insegnamento, anche in un teatro dalle dimensioni gigantesche, sul palcoscenico del quale stava l’attore e il proprio personaggio in un unico corpo, senza alcun altro strumento tecnico di supporto, solo lui in carne ed ossa, una voce ben chiara e distinta - anche nel sussurro - riusciva ad arrivare fino alle orecchie dell’ultimo spettatore seduto nell’ultima fila, che di quella magica creatura artistica che la emanava, vedeva solo un puntino piccolo piccolo: e si veniva travolti dalla verità della vita.